Il vermouth nasce nel 1786, a Torino, per iniziativa di Antonio Benedetto Carpano. Secondo la tradizione, Carpano aveva recuperato la tradizione di alcuni frati biellesi di produrre un vino aromatizzato con erbe. Il vermouth classico è prodotto con vino bianco Moscato di Canelli, zucchero, alcol fino a 16-18 gradi, spezie e aromi vari (assenzio, genziana, isoppo, anice, finocchio), radici, cortecce o scorze di frutta, talvolta colorato col caramello. Questo vino liquoroso dal sapore amarognolo si può ottenere per macerazione a freddo, per infusione a caldo o distillazione delle erbe.
Carpano aveva la sua attività nel cuore di Torino, sotto i portici di piazza Castello, oggi ai piedi della Torre Littoria, grattacielo Reale Mutua. Si dice che dopo averne fatto dono al sovrano Vittorio Amedeo III, il vermouth fu talmente apprezzato da entrare nelle cantine della famiglia reale. Nel Piemonte d’inizio ‘800, si configura come prodotto di lusso per aprire i pranzi più esclusivi dell’aristocrazia. Il cuoco di Vittorio Emanuele II, Giovanni Vialardi, ad esempio consigliava, in un suo celebre trattato, un’ouverture con ostriche al limone e vermouth per i menù più raffinati. Così frequentatori della bouvette, come il Conte di Cavour o Massimo d’Azeglio, contribuiscono ulteriormente al suo successo.
Fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, il vermouth s’impone come l’aperitivo per eccellenza di Torino e diventa un fenomeno di costume. Nei locali torinesi, fra le sei e le sette, la cerimonia del “vermut” era un appuntamento obbligato, capace di armonizzare le diverse classi sociali. Per le giovani di buona famiglia, condotte dalle mamme, rappresentava una sorta d’iniziazione, di debutto nel mondo adulto.
Con il rifacimento di via Roma, negli anni Trenta, la bottega di piazza Castello scomparve ma la produzione rimase a Torino, nello stabilimento di via Nizza, fino agli anni’90, prima di spostarsi a Milano con la cessione del marchio alla società F.lli Branca. Fu proprio la crescita dei consumi del vermouth a gettare le basi per la nascita dell’industria enologica piemontese. Le grandi case vinicole, come Carpano, Cinzano, Gancia e Martini&Rossi, aprendosi infatti al mercato estero, in special modo in America, stimolarono la nascente industria.
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Amenhotep II al Museo Egizio di Torino
/in imperdibile /da AndreaAmenhotep o Amenofi II, figlio del faraone Thutmosi III, visse nel XV secolo a.C. Il sovrano, appartenente alla XVIII dinastia, è ricordato per la prestanza fisica e l’abilità sportiva di cui andava fiero. Le fonti lo descrivono infatti come esperto arciere, abile timoniere di battelli e temerario guidatore di carri.
Oltre a seguire le orme del padre che era stato il più grande conquistatore dell’Egitto, Amenofi seppe instaurare un clima di pace e di ricchezza. Nella prima parte del suo regno portò avanti un programma militare sul modello del padre, mentre nella seconda si dedicò a stabilizzare il paese, con un’amministrazione attenta, come riflette l’eccezionale produzione artistica del periodo.
Amenofi II è l’unico sovrano, oltre a Tutankhamon, la cui mummia è stata ritrovata all’interno della propria tomba, nella Valle dei Re. Scoperta dall’archeologo francese Victor Loret, alla fine del XIX secolo, è oggi conservata al Museo del Cairo, insieme ad alcuni reperti rinvenuti all’interno del sepolcro. L’archeologo vi trovò infatti ben una quindicina di mummie. La stessa tomba era stata riutilizzata come nascondiglio dei resti di altri faraoni e personaggi regali, per proteggerli dalla distruzione, in un periodo intorno al 1000 a.C. Era questa una pratica conosciuta in Egitto: in periodi difficili, quando le tombe venivano depredate, i funzionari mettevano al sicuro le mummie dei sovrani, per fare in modo che continuassero a vivere per l’eternità.
La scultura in granito rosa del Museo Egizio di Torino presenta il faraone Amenofi II sereno, dal sorriso accennato, gli occhi naturali, il corpo muscololoso e forte. Nel nuovo allestimento della Galleria dei Re, Amenofi è posto di fronte al padre Thutmosi III, con il quale regnò in coreggenza i primi anni. Il re è inginocchiato, mente offre due vasi di vino alle divinità, nella sua funzione di intermediario tra il mondo umano e quello divino. Il vino era considerato una bevanda costosa, riservata alle classi agiate, e al tempo stesso un’offerta nei riti religiosi e funerari.
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Le divinità dell’antico Egitto
/in imperdibile /da AndreaGli Egizi, osservando il sole emergere dall’acqua all’orizzonte, crearono il mito di Ra. All’inizio dei tempi c’erano solo acqua e oscurità, finché non apparve un uovo. Quando l’uovo si aprì, nacque Ra, il dio del sole. Il dio assumeva tre forme diverse nel corso della giornata: all’alba è Khepri, a mezzogiorno Ra e al tramonto Atum. Khepri è uno scarafaggio che raccoglie gli escrementi sotto forma di palline e li spinge ovunque. Khepri quindi spinge il sole come lo scarabeo. Atum è un traghettatore: quando tramonta il sole, prende con sé tutte le anime e parte su una barca per l’aldilà. Nell’antichità Ra era anche il dio creatore: creava tutte le cose e dava loro un nome. I suoi figli sono Tefnut e Shu, umidità e aria, che generano Geb e Nut, terra e cielo. Secondo una versione del mito, Ra si innamorò della nipote Nut. Quando Nut si unì a Geb, Ra la maledisse proibendole di avere figli, indipendentemente dal giorno dell’anno. Nut chiese allora aiuto a un altro dio, Thot, che giocando a dadi con la luna, le rubò parte della luce fino a raggiungere i cinque giorni. Quindi, durante questi cinque giorni, che si aggiungevano ai 360 già esistenti, Nut poteva avere figli con Geb, suo fratello e suo marito! Nasceranno Seth, Osiride, Iside e Nefti. Osiride è il fratello perfetto, che fa tutto bene. Suo fratello Seth diventa geloso e gli tende una trappola. Costruisce un sarcofago con le misure esatte di Osiride. Durante una festa, indice una gara e annuncia agli dei che avrebbe offerto il sarcofago a colui che vi si fosse stato perfettamente. Tutti ci provano, ma solo Osiride ci riesce, essendo stato fatto per misura per lui. Quando Osiride si stabilisce all’interno, Seth lo rinchiude e lo getta nel Nilo. Iside inizia a cercarlo lungo tutto il Nilo finché non lo trova. Ma in un momento di distrazione, Seth fa a pezzi il fratello e ne disperde i pezzi nel fiume. Iside trova tutti i pezzi, tranne il pene, e invoca Anubi affinché lo riporti in vita (nasce così l’imbalsamazione). Hanno persino un figlio, Horus, che vendicherà il padre. Horus affronta Seth, che lo bandisce nel deserto. Horus continua a regnare nel Basso Egitto, la parte più fertile, in corrispondenza del delta del Nilo, mentre suo padre rimane negli inferi, come dio dei morti, assicurandosi che possano o meno passare nell’aldilà.
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L’appartamento di Madama Reale a Torino
/in da scoprire /da AndreaA metà del XVI secolo, la duchessa Cristina di Francia scelse l’antico castello Acaja come propria residenza, affidandone all’architetto Castellamonte l’allestimento dell’appartamento di rappresentanza. Le nuove stanze, come racconta Francesca Filippi, vengono ad occupare una posizione centrale, in corrispondenza di un grande balcone, il poggiolo, che si trasforma in palco privilegiato durante le cerimonie sulla piazza.
Ma è soltanto con la seconda madama, Maria Giovanna Battista, che l’antica scala a chiocciola all’interno della torre romana viene sostituita dal maestoso scalone che conosciamo oggi. Progettato da Filippo Juvarra, doveva la sua monumentalità al valore che all’epoca si attribuiva all’incontro fra il padrone di casa e i suoi ospiti, piuttosto che ai momenti successivi. Dalla scalinata si approdava al Salone degli svizzeri e come a Palazzo Reale, il cerimoniale prevedeva l’accesso alle anticamere. Solo in un secondo momento, avveniva l’udienza nella camera da parata, alla presenza della sovrana su un trono, sollevato da un podio e sormontato da baldacchino con frange d’oro. Le pareti, le porte, le sovrapporte, le poltrone e gli sgabelli erano rivestiti di velluto nero con fondo oro, in inverno, e in seta dalle tinte leggere in estate.
Tuttavia gli ambienti più sfarzosi erano la camera da letto e l’alcova erano anche se è probabile che la duchessa passasse più tempo nell’appartamento privato che aveva fatto costruire, all’interno del convento delle Carmelitane. In occasioni ufficiali, secondo l’usanza di Versailles, si svolgeva qui la cerimonia del risveglio e della vestizione. Numerosi erano gli specchi incastonati nelle raffinate boiseries che impreziosivano la stanza come le grandi “finestre finte”, ai lati del letto a baldacchino, ripristinate con il riallestimento del museo, che moltiplicavano la luce accecando letteralmente il visitatore per lo splendore. Ai lati del camino si aprivano due porte da cui si accedeva ad un pregadio e, a sinistra, ad un gabinetto da toeletta, al guardaroba e a un piccolo salottino cinese, per il rito del tè o del caffè, arredato secondo il gusto esotico dell’epoca, con stipi laccati e raffinate collezioni di porcellane.
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Torino e l’ora del vermut
/in gastronomia /da AndreaIl vermouth nasce nel 1786, a Torino, per iniziativa di Antonio Benedetto Carpano. Secondo la tradizione, Carpano aveva recuperato la tradizione di alcuni frati biellesi di produrre un vino aromatizzato con erbe. Il vermouth classico è prodotto con vino bianco Moscato di Canelli, zucchero, alcol fino a 16-18 gradi, spezie e aromi vari (assenzio, genziana, isoppo, anice, finocchio), radici, cortecce o scorze di frutta, talvolta colorato col caramello. Questo vino liquoroso dal sapore amarognolo si può ottenere per macerazione a freddo, per infusione a caldo o distillazione delle erbe.
Carpano aveva la sua attività nel cuore di Torino, sotto i portici di piazza Castello, oggi ai piedi della Torre Littoria, grattacielo Reale Mutua. Si dice che dopo averne fatto dono al sovrano Vittorio Amedeo III, il vermouth fu talmente apprezzato da entrare nelle cantine della famiglia reale. Nel Piemonte d’inizio ‘800, si configura come prodotto di lusso per aprire i pranzi più esclusivi dell’aristocrazia. Il cuoco di Vittorio Emanuele II, Giovanni Vialardi, ad esempio consigliava, in un suo celebre trattato, un’ouverture con ostriche al limone e vermouth per i menù più raffinati. Così frequentatori della bouvette, come il Conte di Cavour o Massimo d’Azeglio, contribuiscono ulteriormente al suo successo.
Fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, il vermouth s’impone come l’aperitivo per eccellenza di Torino e diventa un fenomeno di costume. Nei locali torinesi, fra le sei e le sette, la cerimonia del “vermut” era un appuntamento obbligato, capace di armonizzare le diverse classi sociali. Per le giovani di buona famiglia, condotte dalle mamme, rappresentava una sorta d’iniziazione, di debutto nel mondo adulto.
Con il rifacimento di via Roma, negli anni Trenta, la bottega di piazza Castello scomparve ma la produzione rimase a Torino, nello stabilimento di via Nizza, fino agli anni’90, prima di spostarsi a Milano con la cessione del marchio alla società F.lli Branca. Fu proprio la crescita dei consumi del vermouth a gettare le basi per la nascita dell’industria enologica piemontese. Le grandi case vinicole, come Carpano, Cinzano, Gancia e Martini&Rossi, aprendosi infatti al mercato estero, in special modo in America, stimolarono la nascente industria.
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Piazza San Carlo, il “salotto” di Torino
/in da scoprire /da AndreaDopo il tratato di Cateau-Cambrésis del 1559, Torino era stata eletta a capitale dello stato sabaudo. Costretta entro il vecchio perimetro della città quadrata, Torino era sovraffollata e non rispondeva più alle esigenze imposte dal nuovo prestigioso ruolo. Della “città nuova”, piazza San Carlo costituiva il nodo primario. Per la sua realizzazione, il duca Carlo Emanuele I aveva fatto abbattere un tratto della cinta fortificata meridionale ed un nucleo di case medievali. Il progetto, rifacendosi ai modelli del Vittozzi, si basava su cortine continue ed uniformi, governate da un disegno unitario, simbolo della dignità e dell’autorevolezza del potere ducale.
Le famiglie nobili, invogliate dagli incentivi delle donazioni ducali e dal desiderio di autorappresentazione, vi costruirono nuove residenze, lasciando i propri castelli sparsi sul territorio. Presto la piazza divenne teatro di trame e ambizioni della nuova aristocrazia, tra cui alcune famiglie d’origine francese favorite dalla Madame Reale, che intendeva ravvivare la corte austera di Torino.
Dietro le lunghe palazzate, sorsero le nuove dimore, con maniche a pettine e cortili aperti verso la collina, come Palazzo Villa. Il marchese Guido Villa, valoroso ufficiale, nel 1642 aveva ricevuto da Madama Reale un grande lotto d’angolo sulla piazza Reale, per costruirvi la propria dimora. Il palazzo, su disegno dello stesso Castellamonte, era costituito da tre corpi di fabbrica disposti a U, con affaccio sul panorama collinare e sui nuovi bastioni orientali, con un grande giardino. Più tardi, nel 1720, il nipote Giovanni che ne aveva ereditato la proprietà, abbandonò Torino, offeso dalla richiesta da parte del re Vittorio Amedeo II, di documentare l’investitura feudale.
Il palazzo passò quindi da residenza nobiliare a casa di reddito. A tale scopo fu ampliato e portato a cinque piani su via M.Vittoria e via Lagrange, frazionato e venduto a diversi proprietari. Ancora oggi, nonostante le successive trasformazioni, si può leggere la partitura a portici interna, analoga a quella affacciata sulla piazza, con galleria superiore.
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Sekhmet, la dea leonessa
/in da scoprire /da AndreaLe statue, in diorite, rendono omaggio alla dea Sekhmet, sposa di Ptah, dea della salute e del male e, allo stesso tempo, patrona della guerra e della medicina. Raffigurata come una donna con testa leonina, in piedi o seduta in trono, porta una parrucca pesante ed elaborata, composta da numerose trecce e indossa una veste aderente, lunga fino alle caviglie, che si ferma sotto il petto, sostenuta da due larghe bretelle, decorate con rosette. I suoi attributi sono il disco del sole e il cobra ureo, simbolo per eccellenza della regalità, capace di generare un fuoco distruttivo con cui la dea vendicativa annientava i nemici del faraone.
Nella mano, la dea regge la chiave di ankh, il sacro simbolo della vita, della salute e del benessere. Il significato originale di questo simbolo nella cultura egizia rimane ancora oggi un mistero. Per alcuni egittologi si tratterebbe di una rappresentazione stilizzata del grembo materno o dell’unione fra i due sessi o ancora del contatto fra il mondo divino e quello umano. Utilizzato come amuleto, capace di donare l’immortalità ai defunti, veniva sepolto col corpo.
L’importanza del culto riservato alla dea Sekhmet è testimoniato dalle oltre seicento sculture che il faraone, per ingraziarsi la sua benevolenza, fece scolpire e collocare a Karnak (Tebe). Il Museo Egizio di Torino ne possiede ben ventuno esemplari.
La temibile dea Sekhmet nasceva secondo la tradizione dall’occhio di Ra, per punire gli uomini ingrati. La dea leonessa si era dimostrata da subito una spietata divoratrice. Di fronte a tanta crudeltà, Ra s’impietosì e decise di placarla, offrendole della birra, scura come il sangue di cui era assetata. Al suo risveglio, il sortilegio si era spezzato: Sekhmet era diventata la dea guaritrice.
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Gli appartamenti reali della Mandria
/in da scoprire /da AndreaPer far fronte alla crescente domanda di cavalli per la corte e per l’esercito, viene creata all’inizio del Settecento la Regia Mandria, una grande azienda agraria e zootecnica, dominata dal castello in asse con la Reggia di Venaria.
Saccheggiata dalle truppe napoleoniche, la Venaria viene destinata a caserma, mentre la Mandria diventa residenza di campagna e riserva di caccia.
Negli anni in cui Torino è capitale, il primo re d’Italia acquista l’intera proprietà e vi fa allestire un grande appartamento neobarocco per sé e Rosa Vercellana, mentre fienili e scuderie sono trasferiti all’esterno, nei lunghi fabbricati in stile neogotico. In questo castello borghese, Vittorio Emanuele può dedicarsi alle sue passioni – la caccia, i cavalli, le attività all’aria aperta, i figli avuti da Rosina- lontano dall’etichetta di corte che mal sopporta. E intorno alla tenuta fa costruire un muro di 36 chilometri per non essere seccato dai “piantagrane”!
Con la morte del re, la tenuta è venduta ai marchesi Medici del Vascello che la manterranno fino agli anni Settanta, quando la Regione Piemonte istituisce il Parco della Mandria.
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Il faraone Ramses II
/in imperdibile /da AndreaOpera di straordinaria fattura, rinomata in tutto il mondo, raffigura il faraone Ramesse II (1290-1224 a. C.) uno dei più grandi sovrani dell’Antico Egitto, dal lungo regno di ben 66 anni! La statua, risalente al XIII sec. a. C. circa, fu eseguita in basanite, una pietra di difficile lavorazione, di colore grigio scuro, con riflessi verdi.
La figura, assisa su un trono, segue un’impostazione rigida: il braccio destro regge lo scettro heqa; il sinistro, chiuso nel pugno, l’ankh, simbolo della vita; la testa, lievemente flessa, l’espressione benevola e lo sguardo distaccato ne richiamano la sacralità. Il volto, invece, è più realistico: si distinguono le orbite e le palpebre, il naso pronunciato, la bocca piccola e il mento sfuggente.
Il faraone porta la corona Blu o elmo di guerra e veste la kalasiris, una lunga tunica di lino, con drappeggi asimmetrici che l’artista riproduce con grande raffinatezza sviluppando un effetto chiaroscurale. Ai piedi calza dei sandali sotto i quali sono scolpiti nove archi che evocano le tribù straniere nemiche. Fiancheggiano le gambe del re, in proporzione gerarchica, le figure della regina Nefertari e del figlio Amonherkhepeshef. Scendendo alla base della scultura, sono rappresentati dei prigionieri con le braccia legate dagli steli delle piante simbolo del regno d’ Egitto, il papiro del Basso ed il loto dell’ Alto Egitto, le Due Terre, dalla cui unificazione ebbe origine lo stato faraonico.
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Leggere lo sbarco
/in da scoprire /da AndreaIn occasione dell’80esimo anniversario, una mostra davvero unica rende omaggio agli autori che hanno descritto lo sbarco in Normandia. Nel jardin des pins, del vicino museo dello sbarco di Arromanches, 18 panchine in forma di libri aperti invitano a sedersi per leggere un estratto dei preziosi racconti.
Les livres à deux places, grazie ad uno speciale rivestimento, propongono una selezione di testi e foto che narrano il giorno più lungo, da diversi punti di vista. Un invito a (ri)scoprire la lettura e la storia di un momento epico della Seconda Guerra mondiale, secondo Véronique Maurey, a capo dell’agenzia di comunicazione Haute-tension, che ha ideato l’originale esposizione.
Se vuoi saperne di più approfitta di un tour personalizzato in Normandia
Toh e i toret
/in arte contemporanea /da AndreaI primi abitanti di Torino, i taurini, appartenevano ad una popolazione di origine celto-ligure. Alleati dei romani, combatterono al loro fianco contro i galli e cercarono invano di fermare l’avanzata di Annibale coi suoi elefanti, nel 218 a.C. La città di Torino ne conserva la memoria attraverso il proprio nome e il simbolo per eccellenza, il toro. L’animale icona è il protagonista delle fontanelle cittadine dal tipico color verde bottiglia, il toret (il piccolo toro, in piemontese).
E a quest’ultimo s’ispira TOH l’opera dell’artista contemporaneo Nicola Russo, posta in via Lagrange, all’ingresso de la Rinascente o nell’atrio della stazione ferroviaria di Porta Susa. Un toro panciuto, alto quasi due metri, che nella mente dell’artista si sarebbe finalmente liberato dalla struttura che l’ingabbiava. L’opera, concepita durante gli anni della pandemia di Covid-19, diventa metafora della ritrovata normalità, dopo mesi di confinamento, ma anche di come la città di Torino sia riuscita a liberarsi dall’undestatement sabaudo. Russo aggiunge che allo stesso modo il toro, fiero delle sue imperfezioni, è un simbolo potente contro il body shaming.
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