L’appartamento di Madama Reale a Torino

A metà del XVI secolo, la duchessa Cristina di Francia scelse l’antico castello Acaja come propria residenza, affidandone all’architetto Castellamonte l’allestimento dell’appartamento di rappresentanza. Le nuove stanze, come racconta Francesca Filippi, vengono ad occupare una posizione centrale, in corrispondenza di un grande balcone, il poggiolo, che si trasforma in palco privilegiato durante le cerimonie sulla piazza.
Ma è soltanto con la seconda madama, Maria Giovanna Battista, che l’antica scala a chiocciola all’interno della torre romana viene sostituita dal maestoso scalone che conosciamo oggi. Progettato da Filippo Juvarra, doveva la sua monumentalità al valore che all’epoca si attribuiva all’incontro fra il padrone di casa e i suoi ospiti, piuttosto che ai momenti successivi. Dalla scalinata si approdava al Salone degli svizzeri e come a Palazzo Reale, il cerimoniale prevedeva l’accesso alle anticamere. Solo in un secondo momento, avveniva l’udienza nella camera da parata, alla presenza della sovrana su un trono, sollevato da un podio e sormontato da baldacchino con frange d’oro. Le pareti, le porte, le sovrapporte, le poltrone e gli sgabelli erano rivestiti di velluto nero con fondo oro, in inverno, e in seta dalle tinte leggere in estate.
Tuttavia gli ambienti più sfarzosi erano la camera da letto e l’alcova erano anche se è probabile che la duchessa passasse più tempo nell’appartamento privato che aveva fatto costruire, all’interno del convento delle Carmelitane. In occasioni ufficiali, secondo l’usanza di Versailles, si svolgeva qui la cerimonia del risveglio e della vestizione. Numerosi erano gli specchi incastonati nelle raffinate boiseries che impreziosivano la stanza come le grandi “finestre finte”, ai lati del letto a baldacchino, ripristinate con il riallestimento del museo, che moltiplicavano la luce accecando letteralmente il visitatore per lo splendore. Ai lati del camino si aprivano due porte da cui si accedeva ad un pregadio e, a sinistra, ad un gabinetto da toeletta, al guardaroba e a un piccolo salottino cinese, per il rito del tè o del caffè, arredato secondo il gusto esotico dell’epoca, con stipi laccati e raffinate collezioni di porcellane.

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Torino e l’ora del vermut

Il vermouth nasce nel 1786, a Torino, per iniziativa di Antonio Benedetto Carpano. Secondo la tradizione, Carpano aveva recuperato la tradizione di alcuni frati biellesi di produrre un vino aromatizzato con erbe. Il vermouth classico è prodotto con vino bianco Moscato di Canelli, zucchero, alcol fino a 16-18 gradi, spezie e aromi vari (assenzio, genziana, isoppo, anice, finocchio), radici, cortecce o scorze di frutta, talvolta colorato col caramello. Questo vino liquoroso dal sapore amarognolo si può ottenere per macerazione a freddo, per infusione a caldo o distillazione delle erbe.

Carpano aveva la sua attività nel cuore di Torino, sotto i portici di piazza Castello, oggi ai piedi della Torre Littoria, grattacielo Reale Mutua. Si dice che dopo averne fatto dono al sovrano Vittorio Amedeo III, il vermouth fu talmente apprezzato da entrare nelle cantine della famiglia reale. Nel Piemonte d’inizio ‘800, si configura come prodotto di lusso per aprire i pranzi più esclusivi dell’aristocrazia. Il cuoco di Vittorio Emanuele II, Giovanni Vialardi, ad esempio consigliava, in un suo celebre trattato, un’ouverture con ostriche al limone e vermouth per i menù più raffinati. Così frequentatori della bouvette, come il Conte di Cavour o Massimo d’Azeglio, contribuiscono ulteriormente al suo successo.

Fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, il vermouth s’impone come l’aperitivo per eccellenza di Torino e diventa un fenomeno di costume. Nei locali torinesi, fra le sei e le sette, la cerimonia del “vermut” era un appuntamento obbligato, capace di armonizzare le diverse classi sociali. Per le giovani di buona famiglia, condotte dalle mamme, rappresentava una sorta d’iniziazione, di debutto nel mondo adulto.
Con il rifacimento di via Roma, negli anni Trenta, la bottega di piazza Castello scomparve ma la produzione rimase a Torino, nello stabilimento di via Nizza, fino agli anni’90, prima di spostarsi a Milano con la cessione del marchio alla società F.lli Branca. Fu proprio la crescita dei consumi del vermouth a gettare le basi per la nascita dell’industria enologica piemontese. Le grandi case vinicole, come Carpano, Cinzano, Gancia e Martini&Rossi, aprendosi infatti al mercato estero, in special modo in America, stimolarono la nascente industria.

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Piazza San Carlo, il “salotto” di Torino

Dopo il tratato di Cateau-Cambrésis del 1559, Torino era stata eletta a capitale dello stato sabaudo. Costretta entro il vecchio perimetro della città quadrata, Torino era sovraffollata e non rispondeva più alle esigenze imposte dal nuovo prestigioso ruolo. Della “città nuova”, piazza San Carlo costituiva il nodo primario. Per la sua realizzazione, il duca Carlo Emanuele I aveva fatto abbattere un tratto della cinta fortificata meridionale ed un nucleo di case medievali. Il progetto, rifacendosi ai modelli del Vittozzi, si basava su cortine continue ed uniformi, governate da un disegno unitario, simbolo della dignità e dell’autorevolezza del potere ducale.
Le famiglie nobili, invogliate dagli incentivi delle donazioni ducali e dal desiderio di autorappresentazione, vi costruirono nuove residenze, lasciando i propri castelli sparsi sul territorio. Presto la piazza divenne teatro di trame e ambizioni della nuova aristocrazia, tra cui alcune famiglie d’origine francese favorite dalla Madame Reale, che intendeva ravvivare la corte austera di Torino.
Dietro le lunghe palazzate, sorsero le nuove dimore, con maniche a pettine e cortili aperti verso la collina, come Palazzo Villa. Il marchese Guido Villa, valoroso ufficiale, nel 1642 aveva ricevuto da Madama Reale un grande lotto d’angolo sulla piazza Reale, per costruirvi la propria dimora. Il palazzo, su disegno dello stesso Castellamonte, era costituito da tre corpi di fabbrica disposti a U, con affaccio sul panorama collinare e sui nuovi bastioni orientali, con un grande giardino. Più tardi, nel 1720, il nipote Giovanni che ne aveva ereditato la proprietà, abbandonò Torino, offeso dalla richiesta da parte del re Vittorio Amedeo II, di documentare l’investitura feudale.
Il palazzo passò quindi da residenza nobiliare a casa di reddito. A tale scopo fu ampliato e portato a cinque piani su via M.Vittoria e via Lagrange, frazionato e venduto a diversi proprietari. Ancora oggi, nonostante le successive trasformazioni, si può leggere la partitura a portici interna, analoga a quella affacciata sulla piazza, con galleria superiore.

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Sekhmet, la dea leonessa

Le statue, in diorite, rendono omaggio alla dea Sekhmet, sposa di Ptah, dea della salute e del male e, allo stesso tempo, patrona della guerra e della medicina. Raffigurata come una donna con testa leonina, in piedi o seduta in trono, porta una parrucca pesante ed elaborata, composta da numerose trecce e indossa una veste aderente, lunga fino alle caviglie, che si ferma sotto il petto, sostenuta da due larghe bretelle, decorate con rosette. I suoi attributi sono il disco del sole e il cobra ureo, simbolo per eccellenza della regalità, capace di generare un fuoco distruttivo con cui la dea vendicativa annientava i nemici del faraone.
Nella mano, la dea regge la chiave di ankh, il sacro simbolo della vita, della salute e del benessere. Il significato originale di questo simbolo nella cultura egizia rimane ancora oggi un mistero. Per alcuni egittologi si tratterebbe di una rappresentazione stilizzata del grembo materno o dell’unione fra i due sessi o ancora del contatto fra il mondo divino e quello umano. Utilizzato come amuleto, capace di donare l’immortalità ai defunti, veniva sepolto col corpo.
L’importanza del culto riservato alla dea Sekhmet è testimoniato dalle oltre seicento sculture che il faraone, per ingraziarsi la sua benevolenza, fece scolpire e collocare a Karnak (Tebe). Il Museo Egizio di Torino ne possiede ben ventuno esemplari.
La temibile dea Sekhmet nasceva secondo la tradizione dall’occhio di Ra, per punire gli uomini ingrati. La dea leonessa si era dimostrata da subito una spietata divoratrice. Di fronte a tanta crudeltà, Ra s’impietosì e decise di placarla, offrendole della birra, scura come il sangue di cui era assetata. Al suo risveglio, il sortilegio si era spezzato: Sekhmet era diventata la dea guaritrice.

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Gli appartamenti reali della Mandria

Per far fronte alla crescente domanda di cavalli per la corte e per l’esercito, viene creata all’inizio del Settecento la Regia Mandria, una grande azienda agraria e zootecnica, dominata dal castello in asse con la Reggia di Venaria.
Saccheggiata dalle truppe napoleoniche, la Venaria viene destinata a caserma, mentre la Mandria diventa residenza di campagna e riserva di caccia.
Negli anni in cui Torino è capitale, il primo re d’Italia acquista l’intera proprietà e vi fa allestire un grande appartamento neobarocco per sé e Rosa Vercellana, mentre fienili e scuderie sono trasferiti all’esterno, nei lunghi fabbricati in stile neogotico. In questo castello borghese, Vittorio Emanuele può dedicarsi alle sue passioni – la caccia, i cavalli, le attività all’aria aperta, i figli avuti da Rosina- lontano dall’etichetta di corte che mal sopporta. E intorno alla tenuta fa costruire un muro di 36 chilometri per non essere seccato dai “piantagrane”!
Con la morte del re, la tenuta è venduta ai marchesi Medici del Vascello che la manterranno fino agli anni Settanta, quando la Regione Piemonte istituisce il Parco della Mandria.

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Il faraone Ramses II

Opera di straordinaria fattura, rinomata in tutto il mondo, raffigura il faraone Ramesse II (1290-1224 a. C.) uno dei più grandi sovrani dell’Antico Egitto, dal lungo regno di ben 66 anni! La statua, risalente al XIII sec. a. C. circa, fu eseguita in basanite, una pietra di difficile lavorazione, di colore grigio scuro, con riflessi verdi.
La figura, assisa su un trono, segue un’impostazione rigida: il braccio destro regge lo scettro heqa; il sinistro, chiuso nel pugno, l’ankh, simbolo della vita; la testa, lievemente flessa, l’espressione benevola e lo sguardo distaccato ne richiamano la sacralità. Il volto, invece, è più realistico: si distinguono le orbite e le palpebre, il naso pronunciato, la bocca piccola e il mento sfuggente.
Il faraone porta la corona Blu o elmo di guerra e veste la kalasiris, una lunga tunica di lino, con drappeggi asimmetrici che l’artista riproduce con grande raffinatezza sviluppando un effetto chiaroscurale. Ai piedi calza dei sandali sotto i quali sono scolpiti nove archi che evocano le tribù straniere nemiche. Fiancheggiano le gambe del re, in proporzione gerarchica, le figure della regina Nefertari e del figlio Amonherkhepeshef. Scendendo alla base della scultura, sono rappresentati dei prigionieri con le braccia legate dagli steli delle piante simbolo del regno d’ Egitto, il papiro del Basso ed il loto dell’ Alto Egitto, le Due Terre, dalla cui unificazione ebbe origine lo stato faraonico.

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Leggere lo sbarco

In occasione dell’80esimo anniversario, una mostra davvero unica rende omaggio agli autori che hanno descritto lo sbarco in Normandia. Nel jardin des pins, del vicino museo dello sbarco di Arromanches, 18 panchine in forma di libri aperti invitano a sedersi per leggere un estratto dei preziosi racconti.
Les livres à deux places, grazie ad uno speciale rivestimento, propongono una selezione di testi e foto che narrano il giorno più lungo, da diversi punti di vista. Un invito a (ri)scoprire la lettura e la storia di un momento epico della Seconda Guerra mondiale, secondo Véronique Maurey, a capo dell’agenzia di comunicazione Haute-tension, che ha ideato l’originale esposizione.

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Toh e i toret

I primi abitanti di Torino, i taurini, appartenevano ad una popolazione di origine celto-ligure. Alleati dei romani, combatterono al loro fianco contro i galli e cercarono invano di fermare l’avanzata di Annibale coi suoi elefanti, nel 218 a.C. La città di Torino ne conserva la memoria attraverso il proprio nome e il simbolo per eccellenza, il toro. L’animale icona è il protagonista delle fontanelle cittadine dal tipico color verde bottiglia, il toret (il piccolo toro, in piemontese).
E a quest’ultimo s’ispira TOH l’opera dell’artista contemporaneo Nicola Russo, posta in via Lagrange, all’ingresso de la Rinascente o nell’atrio della stazione ferroviaria di Porta Susa. Un toro panciuto, alto quasi due metri, che nella mente dell’artista si sarebbe finalmente liberato dalla struttura che l’ingabbiava. L’opera, concepita durante gli anni della pandemia di Covid-19, diventa metafora della ritrovata normalità, dopo mesi di confinamento, ma anche di come la città di Torino sia riuscita a liberarsi dall’undestatement sabaudo. Russo aggiunge che allo stesso modo il toro, fiero delle sue imperfezioni, è un simbolo potente contro il body shaming.

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Da Ivrea al Santuario di Oropa

Dopo aver visitato Ivrea, approfittatene per esplorare il vicino Biellese e Oropa, celebre per il Santuario, ma anche per la bellezza del paesaggio e dei panorami.

Visita guidata del Santuario e del Sacro Monte di Oropa

Sin dal Medioevo, i pellegrini che transitavano da e verso la Valle d’Aosta, vi sostavano per venerare la statua della Madonna. Scolpita, secondo la tradizione, dall’evangelista Luca, la statua fu qui nascosta da Sant’Eusebio, per proteggerla dagli eretici. Verosimilmente si tratta di un’opera d’artigianato valdostano, risalente al XIII secolo il cui incarnato divenne nero, solo più tardi, nel XVII secolo, a seguito di un rimaneggiamento. La Madonna Nera è oggi custodita nella basilica antica, il nucleo del Santuario, chiuso da uno spazio porticato voluto da Casa Savoia.

Nei primi anni del Seicento, infatti, in seguito ad una grazia ricevuta dal duca Carlo Emanuele I che aveva temuto per la propria vita, i Savoia cominciarono ad interessarsi al Santuario, facendo aumentare notevolmente il prestigio di Oropa.
Nel XVIII secolo, l’ingresso venne aperto verso la valle, su disegno dell’architetto Filippo Juvarra, con l’intento di dimostrare simbolicamente che gli interessi politici del ducato gravitavano ormai al di qua delle Alpi, verso la parte più importante dei domini, dopo che la capitale era stata trasferita a Torino. Pertanto anche il Santuario di Oropa doveva comunicare in qualche modo l’apertura verso la pianura.
Sulle alture sorse il Sacro Monte ovvero una serie di cappelle dedicate ai principali episodi della vita della Vergine, raffigurati attraverso statue a grandezza naturale.

Sulle tracce dei Savoia

In piazza Castello, dove ancora oggi si respira l’aria di corte, tanti sono i segni che i Savoia hanno lasciato.
Nel XIII secolo, Filippo di Savoia, principe d’Acaja, vi fece erigere il Castello, noto oggi come Palazzo Madama, senza dubbio uno degli edifici più antichi e camaleontici di Torino.

Visita guidata di Torino: p.za Castello (fine ‘600)

Il padre di Filippo, Tommaso di Savoia, si era impadronito di Torino con un espediente da brigante: aveva catturato il signore della città, Guglielmo VII del Monferrato, mentre questi attraversava il territorio francese e lo aveva costretto, in cambio della vita, a cedere ai Savoia la protezione su Torino. Sotto Filippo di Savoia-Acaja, la piazza antistante ospitava spettacoli e tornei cavallereschi. Ma furono soprattutto le donne a segnare la storia del castello: nel 1350, Bianca di Savoia vi festeggiò le sue nozze con Galeazzo Visconti; la Madama Reale Maria Cristina di Francia ne fece la sede del potere nel ‘600 e ne decise il miglioramento; la duchessa Maria Giovanna, seconda madama reale, affidò all’architetto Juvarra la creazione della sontuosa facciata barocca, verso via Garibaldi.

Sempre su iniziativa della Madama Reale, sorse sull’altro lato della piazza, la residenza ufficiale dei Savoia, Palazzo Reale. Grandi artisti contribuirono alla sua realizzazione portandolo all’attuale splendore con Vittorio Emanuele II e Umberto I, a fine ‘800. Gli sfarzosi appartamenti, oggi visitabili, furono abbandonati dai regnanti solo nel 1946, dopo il Referendum che condusse alla nascita della Repubblica.

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